Lady Bird: un manuale di sopravvivenza tra madri e figlie
Quanto è difficile essere genitori? E quanto lo è essere figli? Abbiamo approfondito questa riflessione attraverso il film Lady Bird
Genitori e figli. Madri e figlie. Padri e figli. Croce e delizia delle nostre esistenza. Il cinema se n’è spesso nutrito di tematiche come queste, sempre attuali e riconoscibili, come per esempio il pluricandidato agli Oscar 2018 Lady Bird di Greta Gerwig, che proprio in questi giorni potete trovate su Infinity.
La regista Greta Gerwig raccoglie la sua esperienza di figlia e la racchiude in un film che, da un certo punto di vista, sembra quasi essere un manuale di sopravvivenza genitori – figli. Ovviamente Lady Bird non è solo questo. Pellicola dai toni agrodolci che si sviluppa attorno alla sua tanto giovane quanto problematica protagonista, affronta alcune delle tematiche più comuni all’interno dell’adolescenza, portando particolare attenzione sul rapporto genitori – figli, in questo caso madre e figlia. Partendo proprio da questo, la pellicola sembra voler far compiere un vero e proprio viaggio allo spettatore all’interno delle figure tratteggiate nella storia, esercitando un forte, fortissimo potere di empatia, dettato proprio dalla riconoscibilità delle dinamiche che prendono forma.
Da un certo punto di vista, pellicole come Lady Bird, sono una vera e propria riflessione, tanto per il mondo dei figli quanto il mondo dei genitori, perché pone basi e strumenti attraverso i quali mettere la propria vita, con il filtro del cinema, al microscopio. E da qui parte alla volta dello snocciolamento di quelle tipiche tensioni protagoniste della vita della maggior parte delle famiglie, dove i rapporti si incrinano, i legami si sfaldano, ed un velo di silenzio, rimorsi e frustrazioni aleggia tra le pareti di casa.
Mamme e figlie. Amiche e nemiche. Non è una regola scritta, ma spesso è così. Arrivati ad un certo punto della propria esistenza, assistiamo ad una sottospecie di cortocircuito in noi che ci rende difficile, così difficile, il rapporto con gli altri e, soprattutto, con noi stessi. Questo “cortocircuito” si chiama: adolescenza. L’adolescenza è una brutta bestia, c’è davvero poco da farsi. Non sarà per tutti così; eppure, ogni volta che sento qualcuno dire “quanto vorrei tornare ai miei sedici anni” rabbrividisco perché no, per nessuna ragione al mondo vorrei tornare ai miei sedici anni.
Il disagio interiore, la ricerca disperata del sapere chi sono davvero, cosa voglio dalla vita, cosa voglio da me e dagli altri. E la rabbia. Se c’è qualcosa che mi è rimasto davvero impresso della mia adolescenza è la rabbia: feroce, violenta, irrazionale. Rabbia che il più delle volte si sfogava contro le principali vittime ignare di tutto questo: i miei genitori. Comunicare? Impossibile. Vedevo il loro sforzo, il provarci con le buone, poi con un atteggiamento più aggressivo, tristi o frustrati, stanchi o amareggiati. Impossibile. Ero una bestiaccia che non aveva voglia di parlare con nessuno e trovava più facile scaricare le colpe di quell’inspiegabile malessere e rabbia interiore addosso ai propri genitori. Bhé… devo dire che c’è chi ancora lo fa.
Riguardando indietro nel mio passato, una volta lasciato quel nido troppo stretto, quella “gabbia” di comfort e protezione che non poteva davvero rappresentare la realtà, mi sono trovata a sbattere la testa – come tante persone – contro i veri drammi della vita, piccoli e grandi. I veri ostacoli. Le vere difficoltà. Ed è lì che l’adolescenza inizia a passare, la rabbia svanisce e la volontà di farcela prendere il sopravvento. Si chiama crescita, no!? A quel punto tutto appare più chiaro e la rabbia iniziale è solo un capriccio. Capriccio che va affronta, analizzato e, a volte, anche accorpato dentro di sé per poterlo usare a proprio vantaggio, a favore della propria crescita e della persona che, alla fine, vogliamo essere. In questi casi, poi, sarebbe importante fare lo “sforzo” di prendere il telefono e chiamare i propri genitori, le proprie madri o padri e chiedere scusa. O anche un semplicemente come stai; o, ancora, grazie.
Dinamiche di questo tipo sono estremamente comuni in qualsiasi tipo di adolescente. Generazione x o fluida, figli degli anni ’80 o ’90. Tutti siamo stati adolescenti e la maggior parte di noi ha vissuto quel periodo di rabbia feroce spesso vomitata addosso ai propri genitori o ad uno di essi. Tra donne è più facile che la mamma, la madre, rappresenti il principale veicolo di sfogo. I fattori possono essere molteplici, dalle troppe aspettative di una madre nei confronti della propria figlia o nel far farci fare uno sport, un’attività, un certo tipo stile che avrebbe voluto adottare lei stessa da adolescente e che non ha potuto. Oppure, inizia a raffigurarsi come qualcosa di molto distante da noi. Quante volte le parole “non voglio essere come mia madre” o “non sono come mia madre” saranno volate dalle vostre bocche o da quelle di qualche conoscente? Spesso alla figura materna, per una scelta fatta o non fatto o chissà per quali altri motivi, viene associato un sentimento di ripudio, di insoddisfazione, di volontà opposta a fare, essere, comportarsi esattamente nel modo opposto. Come se una vita dedita al lavoro e alla famiglia, o solo alla famiglia, rappresenti un fallimento.
Come abbiamo detto ad inizio di questa nostra lunga riflessione, il cinema ha spesso raccontato storie di questo tipo, esattamente come nel caso di Lady Bird di Greta Gerwig, proprio in questi giorni disponibile su Infinity, che rappresenta anche un po’ una sottospecie di memorie della stessa regista nei confronti della propria infanzia. Una sottospecie di autobiografica, forse non troppo oggettiva, dove lo sguardo si concentra soprattutto sul rapporto di una madre e di una figlia che sembrerà influenzare irrimediabilmente le scelte, le decisioni, il futuro di Christine (Saoirse Ronan), una studentessa dell’ultimo anno di un liceo cattolico della periferia di Sacramento. Christine inizia a identificarsi sotto lo pseudonimo di Lady Bird, rappresentato il suo status di ribelle, arrabbiata, feroce adolescente alla ricerca di se stessa.
Ed il rapporto tra Lady Bird e sua madre, con tutte le sue turbolenze, le sue urla, mattate, litigi, silenzi pesanti e lacrime, è talmente tanto reale da riuscire a colpire qualsiasi madre e/o figlia posi lo sguardo sullo schermo, rivivendo il proprio passato o presente. Christine e Laurie hanno da sempre un rapporto estremamente conflittuale; da una parte una ragazza troppo ribelle, ancora incerta sul suo futuro ma decisa più che mai a non essere come sua madre, denigrando qualsiasi scelta compiuta dalla donna; dall’altra parte Laurie, un’infermiera che si è sempre spezzata la schiena per la famiglia, apprensiva come ogni madre e frustrata dall’atteggiamento egoista della figlia.
E più per Christine si avvicina l’agognato momento di andare via, lasciare Sacramento e trasferirsi nella tanto desiderata New York, più il conflitto tra lei e Laurie si fa sempre più aspro, sempre più feroce. A chi non è capitato quando stavamo lasciando casa che la tensione con i propri genitori non si è fatta ancora più pesante? Nessuno è davvero mai pronto per questo momento. Neanche “noi figli”, accecati così tanto dal desiderio di farci una vita fuori dal tetto di mamma e papà, che non ci rendiamo conto di aver vissuto in una comfort zone fino a quel momento. La realtà è che inconsapevolmente lo sappiamo e siamo terrorizzati a morte, ma è anche vero che un giovane ragazzo è anche tanto orgoglioso e non ammetterà mai di aver ancora bisogna di mamma e papà, dei baci sulle guance, di una pacca sulla spalla, delle coperte rimboccate, di una spalla su cui piangere, di una mano su cui contare. E più passa il tempo, più questo bisogno diventa intenso, profondo, portandoci a riflettere su quanto eravamo fortunati a dividere ancora il tetto con chi pensava a noi, al nostro benessere e salute, alla nostra istruzione. A distanza di anni ancora ci penso, e ci sono momenti in cui non mi vergogno di chiamare i miei genitori e dirgli che gli voglio bene, che oggi mi sento un po’ sola e ammaccata e non mi dispiacerebbe affatto tornare a casa e farmi rimboccare le coperte da uno di loro.
Stessa medesima cosa accade per i genitori che, per quanto esasperati da uno dei periodi più complessi della vita di un figlio, non saranno mai pronti a lasciarli del tutto andare. Perché quando un figlio lascia il nido, è inevitabile che un certo cordone ombellicare venga reciso; che il nucleo familiare sia destinato a cambiare; che bisogna prendere atto che da ora in poi inizierà una nuova fase per il proprio bambino o la propria bambina, ma al di fuori delle proprie regole ed occhio vigile. Anche qui, ci cadiamo tutti, ci cadono tutti.
Perché dico tutto questo? Lady Bird è una storia di crescita personale, un classico coming of age, ma è anche una storia di attaccamento: di una madre e una figlia che lottano per attraversare i propri confini in un momento in cui la paura dell’abbandono di tale madre e il desiderio di indipendenza della stessa figlia sono particolarmente in guerra tra loro, rendendo ancora più aspro questo conflitto. Nel linguaggio della teoria dell’attaccamento – che teorizza che la nostra relazione precoce con il nostro “caregiver” primario arriva a influenzare il nostro modello di relazioni future comportamentali – la loro relazione sembra un esempio da manuale di uno stile di attaccamento “ansioso”, tipico tra l’altro dei genitori e dei figli adolescenti. I caregiver – spesso rappresentati con la figura materna o paterna o con qualsiasi altra figura che ha rappresentato l’ancora di salvataggio durante i mesi di infanzia di un individuo – a volte forniscono risposte attente e focalizzate all’angoscia di un bambino, altre volte sono eccessivamente invadenti o emotivamente non disponibili. Un attaccamento ansioso è caratterizzato dall’incoerenza di un bambino che non sa mai se i suoi bisogni saranno soddisfatti, il che può portare a problemi di abbandono da adulto.
Ed è esattamente questo tipo di dinamica a venire messa in scena da Greta Gerwig, rappresentato il ripudio di Christine per le scelte di vita di sua madre e l’incapacità di Laurie a comprendere il bisogno di comprensione da parte di Christine. Come tanti genitori, Laurie è spinta dall’inconfondibile senso di protezione nei confronti di sua figlia, volendole garantire solo il meglio, una vita sana e sicura e, forse, lontana dagli errori che lei stessa ha compiuto nella sua vita passata. Del resto, gran parte dei genitori vorrebbero solo il meglio per i propri figli, tenendoli ben lontani da guai o da esperienze, errori, che hanno fatto loro stessi da ragazzi. Spesso il confronto pratico, lo sviscerare questo problematiche può essere una soluzione; invece, nel caso di Lady Bird c’è una mancanza di comunicazione e quindi interpretazione da ambo le parti che, nell’epilogo della pellicola, sfocia in quell’irrimediabile silenzio, rapporto di non detti, pensieri e bisogni celati che porteranno poi Christine a lasciare il suo tetto non solo nella rottura più totale ma anche nel distaccamento dalla figura materna, a tal punto da non avere poi la forza vera e propria di chiedere aiuto nel suo primo vero e grande momento di solitudine lontana dalla propria casa.
Arriviamo, quindi, al momento del perdono, delle scuse, ma come detto prima tutti sappiamo quanto possa essere difficile scusarsi, ammettere di aver sbagliato, tanto per un genitore quanto per un figlio. Forse, la visione di un film come Lady Bird, può permettere ad entrambe queste parti di riflettere sugli errori commessi o atteggiamenti assunti, fare un passo indietro rispetto al proprio orgoglio ed uno avanti rispetto al senso di comprensione. Se imparassimo fin da subito ad aprirci un po’ di più al dialogo, alla comprendere caratteri e situazioni opposte alle nostre, a sentirci più vicini e ad capire quando è il momento di scendere dal piedistallo, fare meno e chiedere scusa, epiloghi come quelli di Lady Bird esisterebbero molto meno. Quindi, forse, pellicole di questo genere, incentrate sul potere dell’empatia e della riflessione, possono davvero essere considerate come fonti di grandi input anche solo per prendere un momento per noi stessi e rapportare quella storia sul grande schermo alla nostra storia, usandola come punto di partenza per fermarci un attimo prima di trovarci ad un passo dal baratro vero e proprio, dalla via di non ritorno.