Tre giorni senza smartphone: cronaca di una sopravvissuta
Vivere senza smartphone: cosa succede se una addicted si ritrova da sola ad affrontare il mondo? Ecco la mia storia
È capitato tutto per caso, un mattino al bar prima del lavoro, mentre prendevo il caffè. Certe cose accadono quando meno te l’aspetti; così, la mattina in cui il mio smartphone, dopo più di un anno e mezzo di continua collaborazione e amicizia, ha deciso di andare in loop e morire, non me lo aspettavo proprio. Un secondo prima ero lì ad aggiornare delle applicazioni e il secondo dopo non c’era più. È così che sono cominciati i miei #tregiornisenzasmartphone, titolo che vorrei proporre eventualmente a Real Time per un nuovo format televisivo: un docu-reality in cui vengo seguita giorno e notte mentre mi muovo spaesata per la città senza sapere dove andare, o vado in crisi d’astinenza da Instagram. Certo, direte voi, ci sono cose più importanti; e poi a confronto di una vita intera cosa vuoi che siano 3 giorni? Avete ragione, tutto è relativo, e se mia nonna Maria è arrivata a novant’anni senza mai neanche vedere un cellulare – anzi, che dico, senza neanche sapere cosa fossero, (ma era bravissima a girare la rotella del fisso per chiamare la Eminflex e ordinare materassi a caso) – posso sopravvivere anche io tre giorni soli senza un benedettissimo smartphone di ultima generazione con connessione integrata e app multifunzionali. Questa esperienza però mi ha formata: mi sono posta delle domande sulla vita e anche sul quotidiano. #tregiornisenzasmartphone diventerà un cult, meglio di Geordie Shore, io lo so. A voi il racconto tormentato di queste desolate, difficili ore senza cellulare.
Primo giorno: la negazione del problema
C’è che a un certo punto il telefono ha cominciato ad accendersi e spegnersi, accendersi e spegnersi, così, in loop. Ero al bar, non potevo fare nulla: così sono corsa in ufficio chiedendo lumi a Google e al mio collega programmatore. Ho imparato un nuovo termine: il mio Samsung super multitasking è briccato, e così il mio cuore. Nessun problema in un tipico giorno in ufficio: sono sempre connessa col pc e poi guardiamo il lato positivo, se ho il telefono spento non mi chiama nessuno, neanche i clienti, neanche gli stracciamaroni, insomma, sono su un’isola deserta di felicità perché volendo posso contattare chi voglio ma nessuno può contattare me e questo è potere, è libertà e insomma, sono rimasta in questo delirio di onnipotenza fino alle 18. Alle 18 sono uscita e mi sono resa conto che non avevo ancora aperto il mio profilo Instagram dove carico almeno una foto al giorno più per abitudine che per reale aspettativa dei miei follower, che potrebbero vivere anche senza. Ma il primo giorno è di negazione: non ho un problema, posso vivere senza smartphone, e poi domani lo sistemo, a casa ho il tablet, e comunque disintossicarmi da Whatsapp mi fa solo bene, cose così. E fu sera e fu mattina. Secondo giorno senza smartphone.
Vivere con lo smartphone. Fonte: gigablast.com
Secondo giorno: l’impotenza
Il secondo giorno avevo una riunione di lavoro. A Moncalieri. Ora, forse non tutti sanno che io ho impressa nella mente a stento già la topografia di Lamezia Terme, la mia città d’origine calabra, figuriamoci quella di Torino e prima cintura. È stato lì che mi sono accorta di quanto Google Maps avrebbe giovato alle mie peregrinazioni a caccia dell’ufficio del mio cliente, che ovviamente era allocato in un campo di grano ai confini del mondo, o del Wyoming, non so dirlo con certezza. E di quanto una connessione avrebbe velocizzato la mia ricerca del numero del taxi, o di un autobus per il Tennessee. Ho chiesto alla mia collega di prestarmi il suo piccolo, lento cellulare, giusto per averne uno in mano: è stato lì che mi sono resa conto di avere un problema. E no, non è la mia dipendenza da cellulare. Sto parlando del fatto di non averlo a portata di mano.
Secondo giorno e mezzo: l’astinenza
Ok, faccio outing: io per addormentarmi scorro la timeline del mio profilo Instagram. C’è chi per conciliare il sonno conta le pecore, chi si fa una doccia rilassante, chi una tisana: io mi guardo Instagram e dopo 6 secondi netti mi addormento. Farlo al cellulare è comodo, ergonomico e soprattutto, ottimale nelle fasi del pre-sonno quando i miei arti perdono consistenza e devo solo allungare di poco la mano per metterlo sul comodino. Va da sè che prendere sonno la notte del secondo giorno è stata dura, con grande gioia di chi dorme accanto a me, costretto a raccontarmi una favola (credo. Ma ho dei ricordi obnubilati dovuti al mio essere emotivamente instabile).
Terzo giorno: la morte sociale
Il terzo giorno è successa una cosa strana: il telefono sostitutivo (dunque sfigato), dunque solito numero ma senza connessione, ha cominciato a squillare. In pratica gli amici, dopo aver scritto su Whatsapp per giorni senza ottenere risposta, si sono preoccupati e hanno deciso di sentire se andava tutto bene. Per una che ha tempi di reazione e di risposta pari a zero, tre giorni di silenzio equivalgono alla morte sociale. La cosa positiva è che, senza Whatsapp, la gente mi pensa ugualmente anche se è più complicato sentirmi (perché ormai fare una telefonata è un dispendio di energia immotivata quando puoi mandare un cuoricino con due click) e questo, lo ammetto, lusinga. La cosa negativa è che se tre giorni senza smartphone hanno decretato la mia morte sociale, non oso neanche immaginare come sarebbe stata una settimana. Già mi immagino mangiata dai gatti, con accanto il mio Alcatel Dual Sim Bianco pagato 50 euro all’Esselunga tutto silenzioso, perché la gente pur di non chiamarmi si è dimenticata di me.
Vivere con lo smartphone. Fonte: il mio smartphone
Quarto giorno: la luce
Il quarto giorno sono finalmente riuscita a formattare il telefono, condizione necessaria per salvarlo. È stato un po’ come tornare alle prime fasi del nostro rapporto: abbiamo ripreso confidenza piano piano, ho appurato che non mi aveva abbandonato del tutto anche se avevo cancellato tutti i dati e che qualcosa si era salvato e, soprattutto, ho riscoperto il piacere di scattare una foto e di postarla su Instagram, una cosa che non facevo da 3 giorni e che, ammetto, non è che mi fosse proprio mancata lì per lì, ma nel momento in cui ho potuto rifarlo mi ha fatto sentire bene. Ho scaricato le app essenziali (faccio outing e ve le dico: Facebook, Twitter, Instagram, Whatsapp, Foursquare, Trip Advisor non so perché ma mi mancava, Pronto Treno che non funziona mai ma non potevo farne a meno e sì, ok, va bene, anche Candy Crush), le ho riposizionate sul desktop nell’esatto ordine del pre-collasso e mi è sembrato che i tre giorni appena trascorsi non fossero mai esistiti.
#tregiornisenzasmartphone: per soldi posso arrivare a 30
In conclusione: è facilissimo abituarsi a stare senza smartphone, soprattutto se non pensi a quante cose potresti fare con lui ma focalizzandoti su tutto quello che comunque puoi fare senza di lui. Ovvero tutto, lo ammetto. All’atto pratico non è cambiato niente, a parte il fatto che non mi veniva proprio in mente come si chiamasse l’attore del film Rush ed ero in mezzo alla strada e non potevo googlarlo (e se non mi viene in mente una cosa nel giro di una frazione di secondo sclero) e ho dovuto aspettare di arrivare a casa per scoprirlo, ma non credo che questo possa in qualche modo rientrare nel campo delle emergenze che se non lo so subito muoio. Comunque, se il format #tregiornisenzasmartphone vi aggrada, io sono disposta ad arrivare anche a 30 giorni consecutivi, ma ve lo dico: sarà una cosa alla The Blair Witch Project. E comunque lo farei per soldi: così alla fine dei 30 giorni vado a comprarmi l’ultimo modello, perché queste ultime righe non sono vere, e non voglio fare la matura, e ok, sarò anche fissata, ma secondo me neanche voi potreste più fare a meno dello smartphone.
(E non provate a rubarmi l’idea della docu-fiction, è mia!)