Chi è Marina Abramović?
Il 21 marzo si inaugura al PAC di Milano l'ultima opera dell'artistar che ha fatto della perfomance art un percorso di vita
Chi è Marina Abramović?! E chi sono io per dirlo? Nessuno, per carità. Ma il personaggio mi affascina da tempo, almeno da quando portò all’Hangar Bicocca di Milano la sua “Balkan Epic”, la cui cartolina di una contadina che mostra il seno al cielo ancora campeggia a oscurare qualche libro su uno scaffale della mia sala. Con un carisma che arriva lontano, l’artista inaugura oggi al Padiglione di Arte Contemporanea “The Abramović Method” (fino al 10 giugno 2012) – e chi già non lo sapeva se ne sarò accorto dopo la sua apparizione in TV a “Quelli che il calcio” domenica scorsa… meno male che a volte le trasmissioni sul calcio servono a qualcosa!
È il suo primo lavoro dopo il grandissimo successo di “The Artist is Present” due anni fa al Moma di New York, dove per tre mesi, ogni giorno, sette ore al giorno, l’artista si donò al pubblico rimanendo seduta, immobile e rigorosamente in silenzio, di fronte ad una sedia che non rimase mai vuota. Questa volta però, i ruoli si ribaltano: non è più l’artista a essere protagonista della performance, bensì il pubblico. In un percorso che porterà chi vorrà interagire con le “installazioni interattive” a stare in piedi, seduto o sdraiato sotto un magnete o su un cristallo di quarzo, esplorando il silenzio e la meditazione per affrontare e scendere a patti con le dimensioni del proprio essere tra corpo, spirito ed energia.
Una vita di live performance
La sua arte è performance: per tutta la vita Marina Abramović si è sottoposta a prove estreme di resistenza fisica e psichica, facendone il marchio di fabbrica della sua produzione. Dagli anni della gioventù e della sua partnership con il compagno Ulay, con cui eseguì per 17 ore a Bologna “Relation in time” (1977), dove i due rimasero immobili seduti di schiena e legati per i capelli, fino all’ode all’erotismo come fonte di vita e di fertilità terrena di “Balkan Epic” (2006), in cui l’artista omaggiò il suo Paese d’origine (la Serbia) dopo tanti anni di emigrazione, la Abramović ha sfidato ogni limite e ogni tabù legato al corpo. In mezzo, molte altre performance che l’hanno vista immobile su una sedia circondata da un cerchio di blocchi di ghiaccio con cinque pitoni appoggiati sul corpo lunghi 2, 3 e 4 metri che non erano stati cibati per le due settimane precedenti nella performance “Dragon Heads” (1990), sepolta da cristalli in “Dozing consciousness” (1997), o seduta su una montagna di resti umani a tentare invano di lavare il sangue di mucchi di ossa in “Balkan Baroque” (1997) – l’opera che le valse il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia.
Oggi l’artista è interessata al concetto di durata e ad un più intenso rapporto con il pubblico, come dimostrano le sue più recenti performance “House With the Ocean View” (2002), e “Seven Easy Pieces” (2005), in cui per sette notti al Guggenheim Museum di New York Marina Abramović riproduceva le performance di 5 artisti, eseguite per la prima volta negli anni ’60 e ’70, la sua stessa performance “Lips of Thomas” e una nuova performance l’ultima notte…
Ma è difficile non pensare al solitario viaggio di introspezione di “Great Wall of China” (1988) con cui, dopo aver percorso 2500 chilometri dagli estremi opposti della muraglia cinese, Marina Abramović e Ulay si incontrarono al centro per concludere la loro storia d’amore. Una performance dove live non è solo il senso del tempo in cui le cose accadono, ma quello della vita stessa.