Il design tra estetica e funzionalità. Intervista a Cristiana Giopato
"La funzionalità è la condizione necessaria, l'estetica è un valore aggiunto, che ti consente di arrivare al cuore della gente."
In un continuo dialogo tra estetica e riflessione culturale, accompagnato dall’evoluzione dei metodi produttivi e funzionali, si sviluppano i prodotti di Giopato e Coombes. La parte femminile del duo, Cristiana Giopato, si racconta.
La tua “specializzazione” sono le sedute. Estetica o funzionalità?
Non sapevo che la mia specializzazione fossero le sedute! In realtà, dovrei capovolgere l’intervista e farti io delle domande! È molto interessante capire come la gente ti percepisce, perché ti rendi conto in quale direzione ti stai muovendo.
Si è talmente presi dalla frenesia del lavoro e dalle opportunità che ti si presentano, che a un certo punto, senza che uno se ne accorga, si viene definiti in un certo modo, come da te in questo caso.
La sedia, per un progettista, è un tema molto complesso, in quanto vi è una completa interazione tra corpo umano e oggetto. L’atto di sedersi, in realtà, crea una “fusione” tra te e l’oggetto, quindi quest’ultimo deve necessariamente rispondere a requisiti di funzionalità ed ergonomia. La funzionalità è quindi la condizione necessaria, l’estetica è un valore aggiunto, che ti consente di arrivare al cuore della gente.
Lo sviluppo di un prodotto industriale di design nasce da una precisa richiesta del cliente, è il designer che concepisce un’idea e la propone, o di solito c’è una via di mezzo? Lo spieghi a noi comuni mortali?
La situazione più frequente è di ricevere dall’azienda un brief di progetto, ossia delle linee guida sulle tipologie di prodotto che hanno intenzione di presentare in futuro, clientela target, ed eventuali altre indicazioni. Sicuramente è il modo migliore per iniziare un progetto insieme, soprattutto se è la prima volta che si collabora con un’azienda, in quanto l’azienda si pone al progettista già con un’idea delle sue necessità e il progettista riesce ad avere dei vincoli da poter osservare, raggirare, o anche scardinare. Spesso però succede che le aziende si innamorino di un progetto che non era nel loro immaginario.
È un po’ quello che è successo con il sistema di sedute Grace per Living Divani (vai alla prima domanda, ndr!). In questo caso abbiamo presentato noi il concept di progetto, in qualche modo ci siamo creati noi un brief, puntando su alcune caratteristiche che contraddistinguono l’azienda. Living Divani è un’azienda in cui vi è estrema cura del dettaglio, elevate qualità insite nel prodotto e una cura maniacale, quasi sartoriale, sul rivestimento. Il sistema Grace è composto da elementi costanti (la struttura) ed elementi variabili (il sedile). La scocca interna è “ritagliabile” e costituisce la superficie massima che contiene al suo interno le altre sagome. In questo modo, a partire da un unico elemento, abbiamo ottenuto una molteplicità di varianti, enfatizzate dal rivestimento che ruba dettagli dal mondo della moda. La moda è stata ripresa come dispositivo capace di definire un carattere, e lo abbiamo trasposto sul mondo dell’arredo. L’apertura mentale dell’imprenditore e il know how di Living Divani ha reso il tutto realizzabile. La prima presentazione è avvenuta tramite una serie di modellini in scala 1:5, in cui abbiamo cercato di esprimere il concept che avevamo in mente, ma il progetto era ancora ad uno stadio embrionale. Living Divani ha compreso la potenzialità del progetto e da lì abbiamo iniziato un lavoro di approfondimento e di sviluppo prodotto insieme a loro.
Il tuo “kit” per gioielli Stardust è una serie di moduli con cui si possono assemblare collane e bracciali personalizzati. Fino a dove può spingersi la personalizzazione nel design di oggetti piccoli e grandi?
Mi piace che le persone vengano spinte dal prodotto a fantasticare, possono trovare usi a cui io non avevo pensato. La personalizzazione sfrutta il concetto di uso improprio di un oggetto, dandone un’accezione positiva. Quante volte succede che si usi una bic per fermarsi i capelli in uno chignon?
Come sei diventata designer e cosa consigli a chi volesse intraprendere la tua professione?
Per me è stato un mix continuo di studio e di pratica sul campo. Tutto è iniziato con una laurea al Politecnico in Design, 5 anni intervallati da un periodo di un anno a Londra alla Brunel University (per aprire un po’ la visione sul mondo). Poi è iniziata la mia pratica: 3 anni presso lo studio Urquiola, a diretto contatto con Patricia, in cui ho spaziato su progetti di design e architettura e quindi, una volta che mi sono messa in proprio, ho portato a termine anche la laurea in Architettura. Un sassolino nella scarpa…
Cosa consigliare… il mondo del lavoro è un mondo molto agguerrito, bisogna crearsi delle fondazioni forti e poi avere il coraggio di distaccarsi.
All’inizio bisogna cercare situazioni per mettersi alla prova e sperare di emergere, partecipare a concorsi, organizzare situazioni di design collettivo in cui confrontarsi con colleghi. Non aspettare che gli altri si accorgano di noi, ma cercare di crearsi opportunità.
La parte dell’essere designer che ti piace di più.
Mi piace molto la combinazione tra approccio istintivo/intuitivo/irrazionale dell’atto creativo e il pragmatismo necessario perché un progetto diventi un prodotto industriale. È un continuo equilibrio precario.
La tua più grande soddisfazione professionale?
Vedere i miei prodotti vivere nelle case della gente, diventando parte integrante di una famiglia.
Il tuo sogno irrealizzabile (o forse non così impossibile)?
In ambito lavorativo… un giorno mi piacerebbe seguire un progetto di ampio raggio, organico, in cui architettura, prodotto e grafica possano interagire all’interno di un unico progetto, come per esempio un hotel.
In ambito personale… ve ne sono molti altri…