Tra inferno e paradiso: cronaca di un viaggio a Sumatra (2)
Da Medan a Padang, tra oranghi, isole tropicali e vulcani per tuffarsi nel verde e scalare il blu di Sumatra
Tutto comincia il 9 agosto 2012 (le premesse sono qui… e poi non dite che non vi ho avvertito!)
Giorno 1. Arrivo a Medan con aereo da Kuala Lumpur (Air Asia, € 70). Dato che l’orario non ci avrebbe permesso di prendere l’ultimo autobus, costringendoci a dormire in questa città che pare non sia un granché, abbiamo preso accordi per essere prelevati da un autista in aeroporto e trasferiti direttamente a Bukit Lawang (400.000rp, tutti gli alloggi a Bukit Lawang offrono il servizio di pick-up a Medan), prima tappa del nostro viaggio, nel Parco Nazionale del Gunung Leuser. Arrivati a destinazione la sera alle 22, ci attende sulla strada Anto, che ci accompagnerà a piedi attraverso il villaggio all’On the Rocks, il nostro lodge che, scopriremo, è proprio al limitare della giungla (location fantastica). Ci attende un welcome drink, mangiamo qualcosa (il primo impatto con la cucina indonesiana già non è niente di che, anche se qui la cuoca era senza speranze) e prendiamo accordi con Anto per il trek nella giungla a vedere gli orango: purtroppo un gruppo che fa il trek di due giorni è già fuori con Wawan (il gestore di On the Rocks) e lui ha già una prenotazione per un trek di un giorno l’indomani, cui potremmo unirci. Per fare un trek di due giorni a questo punto dovremmo “perderne” uno per andare con Wawan o cercare un’altra guida il giorno dopo. Decidiamo di partire il giorno dopo e rinunciare alla notte nella giungla. Nota sul trek nella giungla: tutti sono concordi nel dire che fare il trek di due giorni merita. I grandi appassionati possono farli anche di una settimana, ma bisogna avere esperienza perché il sentiero diventa sempre più difficile man mano che ci si addentra nella giungla. Le guide portano tutto il cibo sia per il giorno che per la sera, quando cucinano al campo. Arrivati a destinazione si fa il bagno nel fiume, si mangia e poi si dorme in tenda. Il giorno dopo se si è in forze (non facile, dopo un giorno nella giungla) si prosegue per qualche ora, altrimenti altri bagni e ritorno in rafting con dei ciambelloni di gomma legati insieme sul fiume. Nota sull’alloggio a Bukit Lawang: essendo una località molto turistica (probabilmente la più turistica a Sumatra) qui c’è molta scelta. L’On the Rocks è molto buono e ha buoni prezzi (stanze con bagno tra i 120.000 e i 200.000) e ci hanno parlato bene anche di Eco Lodge e di Green Hill che però sono gestiti da occidentali. Prima di partire avevamo visto anche Sumatra Ecotravel che offriva pacchetti interessanti ma, oltre che costosi, fully booked fino a 4 mesi dopo!
Giorno 2. Colazione e partenza per il trek. Anto è un’ottima guida, logorroico ma allegro, attento a mostrarci varietà vegetali e anche le piccole forme di vita della giungla, come le formiche giganti con il cui “sangue” si curano le ferite, i ragni (qualcosa di simile a una tarantola l’abbiamo vista solo morta), i funghi, i frutti di cui si cibano gli animali, ecc. L’umidità è altissima, il sentiero è a tratti scivoloso ma non eccessivamente dato che (miracolo) nei due giorni precedenti non ha piovuto. Dopo un’ora di cammino avvistiamo il primo orango, una femmina che se ne sta placida su un albero, infilando sotto al sedere le frasche che formeranno uno dei tanti nidi che costruirà in giornata. Ci guarda dall’alto, un viso dall’incredibile… umanità. Non si può stare più di 5-10 minuti vicini a loro per il pericolo della trasmissione di malattie quindi proseguiamo il nostro percorso. Vedremo ancora alcune scimmie (scimmie Thomas Leaf e macachi dalla coda lunga, pavoni, un orango maschio in lontananza e una mamma con cucciolo che ci ha fatto tanto di acrobazie a 10 metri da terra! Rientriamo sfiniti ma felici, il tempo di una doccia e via a fare una passeggiata nel villaggio finché c’è luce. Tutta la vita si svolge lungo il fiume: c’è chi si fa il bagno e ne approfitta per darsi un’insaponatina, chi suona la chitarra canticchiando (succede spesso), chi porta a spasso la mucca e chi gioca a ping pong. Attraversiamo uno dei tre ponti (non quello centrale che è terrificante per quanto è alto con travi sconnesse e scarsi appigli – e che abbiamo percorso al buio la notte precedente, con mio sommo spavento) e ci facciamo una passeggiata lungo “la” strada, su cui si affaccia qualche ristorantino. Scegliamo il Nifrita, ovvero tre tavoli sul patio della casa familiare di una dolcissima signora di Java, che ci lascerà il ricordo di una delle cene più deliziose del nostro viaggio.
Giorno 3. Il “tourist bus” per Berastagi (che abbiamo prenotato tramite Wawan), ci attende alle 8:30 (100.000rp pp). Altri turisti proseguiranno per il Lago Toba o torneranno a Medan. Il bus impiega 4 ore che diventano 5 tra una pausa e un’altra: purtroppo non c’è una strada diretta che taglia, e bisogna per forza passare dalla trafficatissima Medan. L’autista ci lascia al tourist office, ma non fate come noi (ci andava bene perché volevamo delle informazioni, ma lui ha ricevuto dei soldi dal tizio, che poi ci voleva vendere un tour a pagamento): insistete perché vi porti a destinazione, ché è suo compito. Berastagi in sé non è niente di che, ma ha nei dintorni due vulcani dove si possono fare camminate, le terme, un tempio buddista e alcuni villaggi tradizionali. Purtroppo è già tardi per il trek sul vulcano più vicino, e dopo esserci sistemati in una stanza confortevole alla Sibayak Multinational Resthouse (250.000rp le stanze migliori, non staremo più così bene fino alla fine del viaggio, quando a dire il vero staremo mooooolto meglio!) ci muoviamo: sulla via verso il centro ci fermiamo in un grande campo da calcio dove i bambini, che subito si eccitano per la nostra presenza, scorrazzano giocando a numerose varietà calcistiche, visitiamo il mercato della frutta, il più importante a Sumatra, assaggiando frutti mai visti e facendoci fare due lussuriose pannocchie arrosto, raggiungiamo il mercato centrale dove riusciamo persino a trovare un coltello (cosa rara!) e per cena ci rifugiamo nel ristorante cinese sulla via principale: c’è una grossa comunità cinese qui e il ristorante, per quanto dall’aspetto poco invitante (come tutto il resto) ha ottimi piatti.
Giorno 4. Ci incamminiamo presto verso l’ingresso del parco di Gunung Sibayak, non distante dalla Multinational Resthouse. Paghiamo il biglietto e ci avviamo lungo la strada, dove con nostra sorpresa transitano scooter e a volte qualche macchina che interrompono l’incanto della foresta. Dopo un’oretta di cammino si arriva a uno spiazzo: sulla sinistra c’è una grande vasca vuota, più avanti uno slargo e più niente. Non sappiamo dove andare ed è grazie a una coppia di spagnoli che sopraggiunge poco dopo che troveremo il sentiero (c’è una deviazione ma il cartello è a terra ed è ormai invisibile). Proseguiamo in gruppo fino al cratere: una bellissima passeggiata, stavolta in natura attraverso la giungla prima, poi tra cespugli bassi fino al cratere, che con la sua bellezza e i gayser attorno ci fa sentire vicini alla Terra. Per scendere cerchiamo il sentiero che va alle Terme (non è facilissimo: si trova a circa 90° a destra rispetto al sentiero con cui si arriva, a metà tra due piccoli picchi sul crinale del vulcano). All’inizio è solo un sentiero ma poco dopo iniziano i grandi scalini di pietra (grandi solo in verticale) che facilitano la discesa non proprio semplice (in ogni caso da NON fare assolutamente in caso di pioggia). Sudatissimi, arriviamo all’ingresso delle terme e ci fiondiamo nella prima, senza accorgerci che più avanti ce ne sono altre più grandi (ma più affollate, di domenica). Sia io che la ragazza spagnola indossiamo un bikini con grande ilarità di tutti i presenti quando usciamo dal bagno, le vasche sono calde e rilassanti… Torniamo alla base con un opelet (minivan) e ci procuriamo un po’ di street food take away per cena da gustare sul terrazzo che si affaccia sul pacifico giardino della Sibayak Multinational.
Giorno 5. Andiamo subito a cercare un opelet che ci porti alla vicina località di Kabanjahe, da cui si prendono i bus per le varie destinazioni. Siamo diretti a Singkil, da cui partiremo per le Banyak Islands un arcipelago di piccole isole tropicali non troppo lontane dalla costa. Sembra impossibile trovare un tourist bus come quello che ci ha portato sino qui (in effetti non ci capiterà più, probabilmente stanno più che altro nel triangolo Bukit Lawang – Medan – Lago Toba), quindi ripieghiamo su un minivan (sempre piccolo e sgangherato, ma non locale) con “transit”. La soluzione sembra buona perché alla fine sulla strada siamo noi a superare gli altri e il tempo d’attesa da un bus all’altro è di solo (eh sì, solo…) un’oretta. Impieghiamo comunque quasi una giornata per percorrere 220 km, e quando arriviamo a Singkil non ci sono più barche per le Banyak. Ci tocca cercare un posto per dormire e seguiamo il suggerimento della Lonely (che tuttavia suggeriva di NON dormire, e su questo ci trova d’accordo, perché a Singkil non c’è niente di niente). L’unico posto suggerito dalla guida, Dina Amalia, è un hotel deprimente in cui la nostra stanza “deluxe” (circa 200.000rp) ha nel bagno un buco da cui escono scarafaggi, non ha la zanzariera né lenzuola se non quello che copre il materasso ed emana una certa sensazione di insalubrità (in più la notte dovremo insistere con l’usciere per avere l’acqua aperta). Usciamo a comprare un po’ di viveri da portare sulle isole e troviamo da cenare in una mensa di iftar (la cena che segna la fine del digiuno quotidiano): un unico piatto uguale per tutti di riso e cosciotti di pollo, molto molto gustoso.
Giorno 6. Raggiungiamo di prima mattina il porto, ovvero il punto sulla foce del fiume dove il giorno prima ci aveva lasciato il bus alla nostra richiesta di imbarcarci per le Banyak. Di barche in partenza però non ce n’è, solo canoe di pescatori, e comincia a venirci il dubbio che forse quel moletto sul fiume forse non è proprio il… PORTO. Dopo che in molti si avvicinano cercando di dirci qualcosa in indonesiano e indicando le canoe (No, alle Banyak in canoa meglio di no, grazie…) finalmente arriva un tizio che parla inglese e ci spiega che la barca non si prende da lì (da dove però si prendono i motoscafi per chi fosse interessato, costano sui 1000000rp pp), bensì da un altro molo apposta, che la barca è appena partita ma possono chiamarla per dirle di aspettarci e che qualcuno ci può accompagnare in canoa. Così facciamo e in effetti in pochi ma concitati minuti usciamo dalla foce e arriviamo alla barca che ci aspetta in mezzo al mare: non una barca passeggeri bensì una barca cargo tutta di legno colorato, con merci di ogni genere, scatoloni enormi e persino scooter appesi (costo del passaggio 50000rp pp). Ci appollaiamo dove ci indica il comandante, tra il motore che dopo un po’ diventa caldissimo e qualche scatolone, e ci accorgiamo che a poppa stanno sdraiati i tre ragazzi torinesi con cui avremo il piacere (nonostante l’italianità!) di trascorrere i nostri tre giorni alle Banyak. Durante il tragitto soccorriamo una barca in avarìa trascinandola con due cime legate ad altrettanti pali di legno – una manovra alquanto rischiosa – e arriviamo in 5 ore a Balai, il villaggio sull’isola principale delle Banyak. Qui ci uniamo agli italiani e con loro andiamo all’associazione Yayasan a chiedere info sulla possibilità di alloggiare in bungalow su una delle isole. È lì che incontriamo Deni, un brav’uomo (chiedere di lui per spostamenti alle Banyak) che ci darà il passaggio in barca a motore all’isola SikandangTesto da linkare… (50.000rp pp) dove si trovano i migliori bungalow, quelli di Nina’s (ce ne sono altri sue due isole, ma sono molto brutti e sporchi, dicono). Là troviamo ad attenderci Francisca, una ragazza di Medan che è medico, ma non può praticare perché non è riuscita ancora ad acquistare la licenza. Ci accoglie sorprendendoci con un “buongiorno!” e parla un po’ italiano ma il motivo rimane “segreto”. Sull’isola scegliamo uno dei 4 bungalow a disposizione, spartano ma confortevole e con zanzariera, bagni comuni fuori senza doccia (120.000rp la stanza e 200.000rp pp la pensione completa, compresa l’acqua), e ci fiondiamo in acqua: è in questo momento che capiamo di essere in un paradiso terrestre. La barriera corallina circonda la piccolissima isola (si può “circumcamminare” in 2-3 ore), con spiagge bianche e sabbia che sembra talco, in un paesaggio di palme in parte danneggiate dai terremoti: ce ne sono stati due molto forti negli ultimi anni e le isole Banyak si sono alzate a ovest (nell’isola principale fino a 70 cm) e abbassate sotto il livello del mare a est. Molte palme sono finite in acqua o cadute, creando un paesaggio che ti ricorda costantemente quello che è successo. Prendiamo accordi con Deni per una gita in barca dopo due giorni (la breve trattativa finisce a 900.000rp da dividere per cinque) e andiamo incontro alla sera. La cena è servita in un bungalow più grande con un tavolo comune: conosciamo così Stephan, un ragazzo francese al secondo viaggio a Sumatra che ha scelto questo posto – dopo avere provato gli altri alle Banyak – per scrivere la sua comic story che si intitolerà Tzunami e sarà pubblicata nel 2013. Starà lì in tutto per un mese, ma già conosce bene il luogo e ci racconta molte storie e leggende affascinanti, che ovviamente utilizzerà per il suo romanzo. La cena non è molto abbondante (ehm, a dire il vero alla fine dei tre giorni saremo tutti un po’ dimagriti!), ma buona. Dopo cena, di notte, Francisca fa il bagno in mare, per ore ed ore.
Giorno 7. Passiamo il giorno sotto il sole, facendo il giro dell’isola in mattinata e poi riposando un po’, godendoci il paradiso. L’oceano pullula di vita con pesci di ogni forma e colore, razze dei coralli, murene, ricci giganti, stelle marine enormi blu e rosa (Linckia Laevigata), splendide bivalve di tutti i colori, soprattutto blu (tridacna maxima, pare che siano in via di estinzione)… uno spettacolo immenso di cui non ci siamo saziati mai.
Giorno 8. La pioggia, che fino a ora ci aveva graziato venendo di notte, ci sorprende al mattino, proprio quando dovevamo partire per una giornata in giro per l’arcipelago con Deni. C’è chi ne approfitta per farsi un lungo bagno sotto l’acquazzone e chi beve un tè facendo due chiacchere. Riusciamo a partire a metà giornata, portando con noi un simpatico pranzo al sacco preparato da Francisca. Anche se il tempo non è troppo clemente riusciamo a fare snorkeling all’isola di Tailana, lo spot in assoluto migliore per lo snorkeling che abbiamo visto, più che altro per la particolare forma dei coralli, mentre i pesci… quelli cambiano a ogni angolo di spiaggia! E poi pranzare su un’isola minuscola (tipo 50mq) dove facciamo amicizia con tutti i paguri, passare davanti all’isola dov’è l’unico altro villaggio dell’arcipelago, questo cristiano, e visitare altri due magici microcosmi.
Giorno 9. Il soggiorno alle Banyak è giunto al termine e già abbiamo nostalgia. Porteremo con noi per sempre il ricordo di questi luoghi (e sulla pelle, almeno qualche giorno, quello delle zanzare…) Francisca ci offre un passaggio a Balai con la “barca tradizionale” della casa guidata da Sap, il ragazzo che l’aiuta: lo accettiamo ignari di quel che ci aspetta e ci facciamo quest’oretta di terrore con la canoa che imbarca acqua da sotto e da sopra e sembra potersi ribaltare da un momento all’altro, gli zaini che si inzuppano e le gambe anchilosate. Passeggiatina per le vie di Balai prima della partenza, fantastica pipì davanti a tutti sulla poppa della barca in una turca che dà sul mare e via si riparte, questa volta comodi, dato che la barca cargo non ha quasi niente da riportare a Sumatra. All’arrivo ci attende una brutta sorpresa: il tourist bus che avevamo prenotato per Bukittingi non ci ha aspettato. Secondo il tizio dell’agenzia abbiamo fatto tardi con la barca e gli altri turisti si sono infuriati per l’attesa visto che si tratta di un viaggio di una ventina di ore (per 650 km). Questa non ci voleva: questi sono i giorni della fine del Ramadan e anche secondo il titolare dell’agenzia nemmeno a pagare oro possiamo trovare qualcuno che ci porti subito a destinazione. Le possibilità in questo momento sono due: o dormiamo a Singkil e ripartiamo con la stessa agenzia (Bombay) il giorno dopo, o saliamo in macchina con i torinesi, che hanno prenotato una charter car (ovvero una macchina tutta per loro) per il Lago Toba (circa 10 ore quindi notte in macchina, 1.000.000rp) e decidiamo il da farsi. Ovviamente optiamo per la seconda e, incerti fino all’ultimo se a questo punto andare fino al Lago Toba e poi scendere da lì oppure “tagliare” dubito verso Sud, alla fine decidiamo di dormire a Sidikalang (scopriremo poi che forse non era la scelta migliore), in una grande casa di campagna appena fuori dal Paese. Prima di dormire facciamo un salto accanto casa, attratti dalla musica che sentiamo provenire da un edificio basso. È una sorta di nightclub gestito da un travestito. Una ragazza canta canzoni malinconiche con un tastierista in fondo allo stanzone vuoto. Sorseggiamo una birra in un’atmosfera a metà tra un film di David Lynch e uno di Wong Kar Wai…
Giorno 10. Passiamo l’intera giornata (e successiva notte) in viaggio. Giusto la mattina riusciamo a fare un giretto nel colorito e vivace mercato di Sidikalang mentre ci dirigiamo verso l’agenzia che ha gli autobus diretti a Siborong, il villaggio da cui si prende in teoria il bus per Bukittingi. Il viaggio di 4 ore è da copione: tutti che fumano, mangiano, dormono ammassati l’uno sull’altro, noi compresi… All’arrivo scopriamo che il bus per Bukittingi è alle 16, dopo 3 ore. Facciamo un tentativo vano di trovare una macchina con autista, mangiamo carne di maiale in ristorante cristiano (qui i cristiani sono la maggioranza) e… attendiamo. Quando l’autobus arriva è strapieno: possiamo salire stando in piedi – peccato che il tragitto sia di 15 ore! Eppure vediamo tutte le persone che stavano aspettando con noi, giovani e anziani, sparire nell’autobus. Sicuramente si sdraieranno ai piedi degli altri o sui portapacchi, cosa per noi davvero impossibile. La rabbia è tanta anche perché quelli dell’agenzia sapevano perfettamente che questa era la situazione e avrebbero potuto avvertirci, quanto meno dicendolo alla ragazza che da ore si stava esercitando in inglese con noi. Per fortuna trovano una soluzione, non si capisce come/cosa, solo che arriverà alle 20. Rimaniamo quindi altre 4 ore in questa stanza aperta sulla piazza, all’interno della quale normalmente aspettano i passeggeri e quando non c’è più nessuno, come in questo caso, si svolge apertamente la vita della famiglia: amici che vanno e che vengono, bambini da sfamare, cellulari con la musica a palla. La cosa davvero difficile di questi posti – anche i “ristoranti” spesso sono così, con la famiglia che vive nella stanza di fianco a quella in cui mangiano gli ospiti – è andare in bagno: il tanfo è terribile e ti assale ancor prima di entrare, ma ciò che è ancora più difficile da credere è che quello è il bagno dell’intera famiglia. Alle 20 spaccate succede l’incredibile: una macchina nuova fiammante con due sole persone a bordo si palesa davanti a noi. Quasi commossi, ci avviamo verso una nuova avventura on the road.
Giorno 11 (perché credo che sia dopo la mezzanotte che si verifica una serie di eventi). Innanzitutto l’impressione che quella che credevamo fosse una coppia in vacanza dalla quale in qualche modo quelli dell’agenzia/stazione degli autobus avevano rimediato un passaggio per noi si rivela sbagliata. Lei scende nella città successiva ed è qui che l’autista sbaglia strada clamorosamente, passando per tre volte sopra lo stesso ponte: alla fine lo aiutiamo noi mostrandogli la strada che tra l’altro, per una volta, è chiaramente indicata. Passa mezz’ora e riceve una telefonata. Si ferma sul ciglio della strada, e sebbene si ostini a parlarci in indonesiano riusciamo a capire che ci dobbiamo fermare e che c’entra in qualche modo la polizia e il suo errore in città. Lui si batte la mano sulla testa dalla disperazione e allo stesso tempo ride, noi già sudiamo freddo al pensiero di rimanere ostaggio della polizia e dover passare la notte in qualche caserma. Alla fine arriva un van che si ferma dietro di noi, il nostro autista sparisce al suo interno e sulla nostra macchina sale un giovane ragazzo che ci guarda e fa: “Polisi” (polizia), offrendoci le due bevande che ha con sé (una sorta di Red Bull indonesiana). Ma in caserma non ci andiamo: il tipo (evidentemente un sostituto dell’altro, la cui guida “incerta” era stata segnalata dalla polizia a quella che è, quindi, un’agenzia) guida spedito che neanche un pilota di rally e così percorriamo nella notte la famosa Transumatran Highway, fermandoci solo per tirare su 5 persone che poi scenderanno dopo un paio d’ore. A ogni ora della notte c’è qualcuno che cammina (al buio) lungo la strada laddove ci sono case, un affascinante scenario notturno cui in condizioni normali non avremmo assistito. È in queste ore che attraversiamo l’equatore. Verso l’alba il traffico a piedi si intensifica: è l’ora della preghiera del mattino. Anche l’autista si ferma per andare alla moschea. Quando ripartiamo è talmente stanco che riesce a perdersi in un centro abitato reimmettendosi sulla strada principale nel senso opposto. Glielo facciamo notare e da quando si accorge che abbiamo il gps sul telefono fino all’arrivo (cioè per un buon paio d’ore almeno) chiederà conferme sulla direzione ogni 5 minuti (anche, in un caso, fermandosi su un rettilineo – non sto scherzando). Nei giorni successivi sentiremo racconti analoghi di viaggi estremi in questi giorni con autisti in condizioni al limite dell’umano da tutti i turisti che incontreremo. Arriviamo a Bukittingi di prima mattina sfiniti e troviamo un’ultima stanza libera all’hotel che avevamo scelto sulla Lonely Planet (ma che in questi giorni non accettava alcun tipo di prenotazione, come tutti gli altri), l’Asia Hotel, onesto in tutti i sensi. Bukittingi in teoria sta a Sumatra come St. Moritz alla Svizzera, ma davvero non è niente di speciale, al di là dell’architettura tradizionale Minangkabau e del mercato di alimentari e souvenir (ma anche in questo caso vale il principio che a Sumatra non c’è niente da acquistare…). La giornata se ne va tra passeggiate e dormite di recupero ed incursioni culinarie poco degne di nota, tranne per la scoperta del bar ristorante dell’Hotel Lima di fianco a noi, che oltre ad avere piatti appetitosi ha anche – udite udite – una connessione wifi…
Giorno 12. Più che una città da visitare in sé Bukittingi è un utile punto di partenza per una serie di escursioni nei dintorni. Potendo sceglierne solo una, abbiamo scartato il trek sul vulcano Marapi, che prevede la salita in notturna, e quello sul lago Maninjau, optando per l’Arau Valley, cui tra tutti la Lonely ha scelto di dedicare uno speciale paragrafo. Bè, le cascate citate dalla guida non sono nient’altro che un rigagnolo d’acqua che in un punto particolare bagna una parete altissima e spettacolare (quella sì) di roccia che percorre tutta la valle. Non potendo credere che sia tutto lì, arrivati a destinazione, ci incamminiamo su una strada sterrata laterale rispetto alla via principale, dopo aver chiesto a un gruppo di ragazze se da quella parte ci siano le cascate e aver ottenuto una risposta vagamente affermativa. Dopo due ore di cammino su una strada di campagna in mezzo alle risaie (bellissima, niente da dire) in cui non incontriamo nessun altro essere umano a piedi (i pochi che passano sono rigorosamente in scooter), quasi allo stremo delle forze per il caldo e la sete, troviamo questa benedetta cascata dove la parte maschile del gruppo si unisce al gruppo di ragazzi che ci ha preceduto per un bagno da “Libro della giungla”. Saranno loro che ci preleveranno con i loro scooter sulla via del ritorno e ci riaccompagneranno all’inizio della Valley, superando il totale blocco stradale creatosi nel frattempo sulla via principale. Ci metteremo la bellezza di 7 ore per ripercorrere in autobus una distanza di soli 50 km. Lezione appresa: mai spostarsi alla fine del Ramadan, e soprattutto rimanere immobili (possibilmente in cima a un monte o, meglio ancora, dentro a un vulcano) il giorno dopo. Al rientro dormiamo nell’hotel di fianco all’Asia, il Lima Hotel, cui ci siamo trasferiti al mattino dopo essere stati svegliati da ripetuti schiamazzi nel nostro hotel, e… attratti dalla possibilità di una connessione. Non ci sarà nessuna differenza nella qualità anche se il Lima costa il doppio: gli hotel proprio non ce la fanno a gestire questo afflusso di turisti.
Giorno 13. È con Internet che acquisiamo le informazioni necessarie per capire che non ce la facciamo più ad andare alle Mentawai. Alcuni forum di viaggiatori confermano quanto ci era già stato anticipato: bisogna calcolare almeno 5 giorni dopo il rientro dalle isole e prima del volo, perché a causa delle forti correnti oceaniche a volte i traghetti rimangono bloccati. Anche a costo di non prendere l’unico traghetto che tutti raccomandano per pulizia e puntualità (l’Ambu Ambu) e che parte una volta alla settimana (il giovedì), rischieremmo. Dobbiamo rinunciare. Niente più Riserva della biosfera dell’Unesco, tribù indigene, surf mondiale (questo non che interessasse a me, s’intende). Presi dallo sconforto, cerchiamo una destinazione di mare in cui trascorrere gli ultimi giorni e troviamo la notizia di un resort gestito da occidentali (leggi: dove anch’io posso mettermi in costume) su un’isola nella zona di Padang, il Cubadak Paradiso Village. Prenotiamo lì le ultime tre notti, un po’ sollevati e un po’ delusi di noi stessi per questa decisione necessaria ma forse un po’ da… vecchietti? Aspettiamo che spiova e ci muoviamo alla volta della stazione degli autobus per Padang. L’autobus parte intorno all’una e in teoria ci mette tre ore: diventeranno almeno sei per il traffico, e l’autobus non ci lascia nemmeno in città. Il passaggio in opelet però si rivela interessante: tutti gli opelet di Padang hanno infatti un look moderno molto particolare: sono iperaccessoriati per la musica neanche fossero una discoteca ambulante, con luci e casse di ogni genere, sedili imbottiti e colori. All’arrivo cerchiamo un losmen consigliato dalla Lonely Planet ma all’indirizzo indicato troviamo un lotto di terra vuoto: probabilmente la casa, che doveva essere in stile balinese, è stata rasa al suolo dal terremoto del 2009. Ci arrendiamo e ci infiliamo nell’hotel in fondo alla strada (Axana), che scopriremo poi essere il migliore della città, e ristrutturato dopo il terremoto. Niente male la cena al Ikan Bakar ‘Pak Agus’, con pesce alla griglia (finalmente!) che puoi scegliere prima di entrare e ottimo tè al limone. Passeggiatina notturna di pregio persi nel quartiere coloniale e via a collassare.
Giorno 14. Data la dilatazione dei nostri tempi di viaggio causa annullamento-Mentawai e dato che nessuno vuole affittarci degli scooter per andare fino al Kerinci Seblat National Park, mettendo fine alle nostre speranze di un’ultima gita avventurosa, trascorriamo la giornata a Padang (per chi vuole programmare un viaggio a Sumatra: non è necessario) tra un po’ di shopping al mercato (dove, scoprirò poi, si possono comprare delle bellissime stuoie colorate per la spiaggia: io non le ho viste però, e per il resto non ho trovato niente di interessante) in un negozio per surfisti australiani e in un centro commerciale (dove acquistiamo delle t-shirt molto belle che non sono nemmeno sicura siano prodotte in Asia – ma avevamo bisogno di qualche pezzo di ricambio…), una passeggiata sul lungo mare al tramonto (dove a quell’ora si riversa la città – incredibile), una cena in un ristorante lurido ma buono con la tipica cucina di Padang (tu ti siedi e loro ti riempiono il tavolo di ciotole e piatti, tu mangi e alla fine si fa il conto in base a cosa hai mangiato – il sogno di tutti i viaggiatori) e l’ennesimo frullato di frutta (altra cosa tipica di Padang: non ci siamo sentiti male, ma bisogna valutare bene il grado di pulizia prima di rischiare…) in un ristorante allegro quando all’improvviso c’è un blackout. Ci avviamo verso casa nel semibuio.
Giorno 15. Di Padang ne abbiamo già abbastanza. Ci spostiamo in opelet in una località di mare più a Sud, Bungus, dove c’è una bella spiaggia, qualche losmen e la possibilità di fare gite (e volendo dormire nei bungalow) all’isola di Pagang. Peccato che 1. la spiaggia sia gremita da turisti locali 2. io non possa fare il bagno (vestita? per carità) 3. il vicino sentiero nella giungla sia infestato di sanguisughe (ci vogliono, oltre al sangue freddo, i calzini apposta) e 4. si metta a diluviare per buona parte della giornata. Il losmen cui puntavamo, Carlo’s, è al completo (l’ho già detto che nei giorni di fine Ramadan è meglio stare fermi?!) però, dopo aver scartato il secondo losmen, Tintin, che ci voleva offrire l’ultimo alloggio disponibile cioè una… tenda, troviamo un’ottima sistemazione in un hotel che ai 5 bungalow storici sulla spiaggia ha di recente aggiunto una fila di stanze inmuratura sul retro, molto confortevoli. Verso sera andiamo per cena da Carlo’s, dove c’è sempre quel che in Germania sarebbe uno Stammtisch, ovvero un ritrovo informale di persone, in questo caso i turisti (soprattutto gli occidentali) della zona.
Giorno 16. Piove. Passiamo una lenta giornata sulla veranda a leggere e a sorseggiare latte di cocco – qui le palme crescono basse e i grappoli di cocco sono a portata di mano. Usciamo giusto a fare una passeggiata lungo la spiaggia quando smette di piovere e per cena prendiamo un opelet per andare a un ristorante che abbiamo avvistato sulla strada all’inizio del villaggio dove mangiamo ottimamente e in buona compagnia prima di prendere un passaggio in ojek (scooter) per rientrare.
Giorno 17. L’autista di Cubadak con cui abbiamo appuntamento alle 9 per il trasferimento al resort arriva in anticipo (non ci possiamo credere). Il viaggio in macchina dura un paio d’ore, arriviamo in un villaggio di pescatori minuscolo con un porticciolo e qui viene a prenderci Nanni, il gestore di Cubadak, che a Sumatra si è trasferito 21 anni fa, dopo una folgorazione in un viaggio da ragazzo e l’intuizione che questo paradiso aveva un potenziale turistico poco sfruttato – non che da allora sia cambiato molto… Il passaggio in barca è di pochi minuti, quel che basta per ritrovarsi di nuovo su un’isola tropicale. A differenza dei Nina’s bungalows delle Banyak non hai l’impressione di sentirti su un’isola deserta (anche perché dall’altra parte dell’isola c’è in effetti un villaggio), ma la location è fantastica: una serie di 12 bungalow a pochi passi dalla spiaggia, con la giungla alle spalle e di fronte le acque chiare, coralline, di una laguna incorniciata tra le colline di Sumatra. Pur senza un centimetro quadro di cemento e particolari tecnologie tutto funziona alla perfezione: il bungalow è grande, arredato con cura e completamente in legno, bagno e doccia compresi, c’è un servizio di pulizia giornaliera, il cibo a tavola è incredibilmente buono, vario e abbondante (per i pranzi e le cene si viene richiamati con una campanella), la sera si può fare l’aperitivo in un bungalow sull’acqua, a tutte le ore del giorno sono disponibili tè e biscotti, e c’è l’attrezzatura per fare snorkeling, surf e vela (oddio, la piccola barca a vela che avremmo voluto usare è stata danneggiata proprio il giorno in cui siamo arrivati…). Volendo il partner francese di Nanni organizza anche immersioni e corsi di scuba diving. I pranzi e le cene nel bungalow principale sono conviviali, con gli ospiti (tutti occidentali, e non siamo gli unici giovani – eddai, lasciatemi dire “giovani”) seduti in grandi tavole miste. Ovviamente anche i prezzi sono occidentali: € 90 al giorno a persona per soggiorno, pensione completa e passaggio in macchina nella zona di Padang (incluso per un soggiorno minimo di tre notti), che visto da qua può sembrare poco, ma solo visto da qua… In ogni caso soldi spesi bene. Neanche a dirlo, passiamo la giornata a filo d’acqua a guardare il paradiso sotto di noi.
Giorno 18. Per non passare proprio tutta la giornata a fare snorkeling decidiamo di affrontare il trek nella giungla alle spalle del resort al mattino. In solo mezz’ora, ma non senza fatica e attacchi di nugoli di zanzare, si arriva a una sommità da cui si vede tutto il panorama della laguna. Spettacolare. Il resto della giornata è snorkeling, snorkeling, cibo, snorkeling, snorkeling…
Giorno 19. Per oggi Cubadak ha organizzato un picnic su un’isola vicina. Partiamo la mattina con una barca del resort in cui il personale ha caricato anche il cibo e passiamo la giornata su una piccola isola a mezz’ora di navigazione, dove facciamo snorkeling e pisoliamo in spiaggia. Relax totale.
Giorno 20. Ci svegliamo alle 4 e facciamo colazione: sì, ci preparano la colazione che non è nemmeno l’alba, è Nanni stesso a farci il tè e, poco dopo, ad accompagnarci in barca alla macchina che ci aspetta al porticciolo per accompagnarci all’aeroporto di Padang, da cui ripartiamo per Kuala Lumpur.
Giudizio complessivo? Ci vuole forza (e coraggio!) per viaggiare a Sumatra, e sicuramente il nostro viaggio, col senno di poi, avrebbe potuto essere organizzato diversamente. Ma quel blu e quel verde rimangono stampati nella testa. E spero che il racconto possa essere utile a chi viaggerà dopo di noi!