Le comuni mascherine chirurgiche impiegano 450 anni a decomporsi
L'errato smaltimento delle mascherine usate, rischia di peggiorare il discorso legato all'inquinamento dei mari
Sono ormai quasi 8 mesi che quando usciamo di casa, oltre a prendere chiavi, borse e portafogli, dobbiamo ricordarci di prendere anche altri oggetti. Stiamo parlando delle mascherine e di tutti quei dispositivi di protezione individuale necessari per contenere il più possibile il contagio da Coronavirus. Ma quando abbiamo finito di utilizzarle, siamo sicuri che tutti le smaltiscano nella maniera corretta?
La pandemia da Covid-19 si è ormai dileguata ovunque e spaventa il mondo intero. Dopo la prima ondata della primavera scorsa, ne stiamo vivendo ora una seconda, che non sembra affatto essere meno preoccupante.
Ma al mondo, di grave problema, ce n’è anche un altro di cui si parla molto negli ultimi anni. Stiamo parlando dell’inquinamento dei mari. Purtroppo, l’esigenza di utilizzare miliardi di mascherine in tutto il mondo e l’errata gestione dello smaltimento delle stesse, non fa altro che peggiorare la situazione.
Nel mondo, ogni anno finiscono in mare aperto oltre 8 milioni di tonnellate di plastica. Soltanto in Italia, nell’anno solare 2020, si è calcolato che verranno utilizzati circa 37,5 milioni di mascherine e 80 milioni di guanti in lattice o simili.
E se consideriamo che il tempo previsto per un completo smaltimento di questi oggetti si aggira attorno ai 450 anni, allora sì che la preoccupazione per i nostri mari sale. Soprattutto se si pensa che, purtroppo, la maggior parte di questi DPI non viene smaltita nella maniera corretta.
Le mascherine biodegradabili
La problematica sollevata dagli ambientalisti è arrivata all’attenzione di molte aziende produttrici, che si sono impegnate e si stanno impegnando a trovare delle valide soluzioni.
La maggior parte delle mascherine che siamo ormai abituati ad utilizzare, sono costituite in gran parte da poliestere e polipropilene, due materiali altamente inquinanti per l’ambiente. Ci sarebbero, però, delle eccellenti alternative che, oltre a proteggere in modo abbastanza efficiente, ridurrebbero fino a quasi eliminare il problema di cui sopra.
Le mascherine in carta, ad esempio. Quattro strati di carta che, sovrapposti, sono in grado di filtrare polveri, fumo e in parte i batteri. Inoltre, evitano l’effetto apnea delle normali mascherine chirurgiche o simili.
La più comune alternativa, che effettivamente già molti utilizzano, sono le mascherine lavabili e riutilizzabili. In tal campo c’è una piccola azienda in Brianza che ha brevettato quella che è chiamata “D3CO“. Si tratta di un dispositivo composto al 100% da cotone naturale e che presenta un filtro dello stesso cotone pressato. D3CO è stata anche approvata dai ricercatori del Politecnico di Milano.