Confessioni di una radical chic II: diventare madre e imparare l'arte del compromesso
Ero una radical chic militante e poi sono diventata madre. No, non vi aspettate la storia di un cambiamento radicale ma di come il compromesso (e ricordarsi il latte) sono entrati nella mia vita
Sono stata per la maggior parte della mia vita una radical chic.
Una di quelle che no-io-non-mi-omologerò-mai, i mobili devono essere presi al mercatino, il cappotto deve essere quello di Annie Hall o che le scarpe a punta sono peggio che avere la tubercolosi.
Sono stata maniacale nella scelta dei discorsi, nei punti di riferimento cinematografici, letterari ed ideologici.
Antonioni e Bergman come se piovesse (e soprattutto quando piove fumando Gitanes e bevendo tè bancha), Camus, Bakunin…
Cose così ma approcciate con una convinzione maniacale come se fosse l’unico modo di pensare.
Non sono mai arrivata a fischiettare Ludovico Einaudi in bicicletta o a decidere di passare le vacanze in una ex porcilaia ristrutturata a San Casciano da un’amica falegnama o a decapare i mobili, ma ho sempre difeso una serie di cose con un piglio da fondamentalista della pashmina.
Poi sono diventata madre e ho capito l’arte del compromesso.
Dopo anni passati a coordinare calzette-scarpette-cappottini all’Amélie Poulain del primo municipio, ho scoperto la praticità di un paio di pantaloni e l’approcio diverso che dà una mise spartana che passa inosservata.
Credo che il problema di base sia stato sempre un po’ quello: la paura di passare inosservati.
Il dover essere diversi non per costrutto ma per insicurezza.
Come se farsi piacere cose normali o non passare tre ore della propria vita a vedere un film turco muto in v.o. potesse farmi sentire banale.
Ma perché tanta paura della banalità?
Perché tanta paura di essrere normali?
Io ho due livelli di comprensione delle cose.
Il primo è un livello profondo,riflessivo e attento e poi un secondo livello totalmente superficiale.
Se sono serena riesco ad essere un perfetto equilibrio tra le due cose e questo mi piace e mi fa sentire me stessa.
Quando mi sento insicura salto da un eccesso all’altro e mi sento prima completamente arida per poi infliggermi pesanti pene culturali per ovviare il mio senso di colpa.
Essere madre (torno al punto prima di finire a parlare di qualche film dell’Uzbekistan visto in qualche festival), mi ha insegnato ad avere sempre un punto di riferimento emotivo forte e a mettere in secondo piano le mie elucubrazioni perché mi devo ricordare per esempio di comprare il latte.
Essere madre mi ha insegnato che c’è una vita pratica, vera che va vissuta invece che letta e sognata su un libro o in un film.
Essere madre mi ha insegnato a fare.
Sembra una cosa banale ma io non pensavo di riuscire a fare quello che faccio.
Quello che devo ancora imparare, ma sto migliorando, e non fare proiezioni su mia figlia e non pensare che lei sarà come me e che i miei punti deboli saranno i suoi.
Forse non amerà Bergmann ma sarà felice lo stesso e a me toccherà accettarlo senza cercare di spiegarle che se proprio ci impegniamo possiamo trovare una leggerezza in Scene da un matrimonio.
Mi arrenderò al fatto che magari lei non passerà la sua adolescenza a divorare Flaubert o a vedere Woody Allen ma preferirà altre cose.
L’importante è che ci sarò sempre dialogo costruttivo.
Il dialogo. Non il dibattito. A quello morettianamente devo imparare a dire di no.