Andy Warhol e il rock di velluto della Factory
Alla scoperta del loft dove l’unica regola era l’assenza di regole
Articolo scritto da Clara Natale
Nostalgici di tempi andati che non avete vissuto? Girate per mercatini vintage come se foste a caccia di tesori per accaparrarvi il miglior vinile o pezzo di design? Divorate con gli occhi quello che vedete esposto alle mostre?
Ecco a voi un biglietto di sola andata per questo viaggio. Direzione New York. Inizi anni Sessanta.
231 East 47th Street: non un indirizzo qualunque, ma quello che ha lasciato una traccia indelebile nella scena underground occidentale del Dopoguerra. È l’indirizzo della Silver Factory: un loft colorato di carta da parati argentata. Punto di incontro di giovani artisti di incerto talento: attori, poeti, cantanti in cerca di gloria e di un leader.
Ad attrarli come una calamita lui, Andy Warhol, geniale, indiscusso, carismatico.
Era il periodo degli eccessi, in cui tutto era lecito. Il consumismo e il glamour rappresentavano boccate d’ossigeno apparenti in un’America schiacciata tra la Seconda Guerra Mondiale e il Vietnam. Il clan della Factory incarnava perfettamente l’immagine di quel tempo, nel credo quasi sfacciato del “Sogna come se potessi vivere in eterno, vivi come se dovessi morire oggi” nato pochi anni prima con James Dean. Il re della Pop Art predicava l’arte non come un concetto fine a se stesso, ma come creatività vista in ogni sua libera espressione. Nessuna regola. Tutto era concesso. Droghe, sesso, ambiguità. Perché il creativo deve essere libero di manifestarsi, deve improvvisare, non seguire un copione. Tutto in contrapposizione ai limiti imposti dalla morale borghese.
Tanti i personaggi che arricchivano il suo entourage. Alla ricerca del quarto d’ora di popolarità: “Nel futuro, ognuno sarà famoso per quindici minuti”.
Musa ispiratrice di Warhol: Edie Sedgwick, definita dallo stesso un pezzo d’arte pop camminante. Con lei realizza ben 11 film, tra cui “Ciao! Manhattan” e i due per un breve, ma intenso, periodo, sono inseparabili. Bob Dylan, altro frequentatore della Factory, le dedica varie canzoni e si pensa che questa modella californiana di pallore aristocratico sia proprio la leggendaria pietra che rotola in “Like a rolling stone”.
Nico. La “Femme Fatale”, come cantava, entra nel collettivo presentata da Bob Dylan e, dopo essere stata coinvolta da Warhol in alcuni film sperimentali, entra come voce femminile nei Velvet Underground.
Rock di velluto. Voce eterna di Lou Reed. Che ti entra nelle ossa da quando appoggi la puntina del giradischi sul vinile. Una banana gialla dal tratto unico e inimitabile. Lato B. Prima traccia. Un arpeggio ipnotico e “I don’t know just where I’m going, but I’m gonna try for the kingdom if I can”.
Mi piace finire il viaggio così, alla scoperta di un regno, ricordando questi grandi artisti che resteranno immortali.
Ah, dimenticavo! Se capitate per Roma, il Museo della Fondazione Roma Palazzo Cipolla ospita una mostra dedicata al genio eclettico della Pop Art. Sono esposte ben oltre 150 opere: tele, fotografie e sculture che fanno parte della Brant Foundation, del collezionista Peter Brant amico/socio di Warhol.
Un’esperienza variopinta da far girare la testa. Famosissime opere come le Electric Chairs, i ritratti di Mao e Liz Taylor e quello immancabile di Marilyn Monroe. Un percorso visivo che ti presenta un artista star e un artista uomo. Tantissime le polaroid fatte ad amici, come Yves Saint Laurent e Mick Jagger, che ti fanno capire che se non eri del suo giro non eri nessuno. Capace di succhiare l’anima dei suoi prediletti e di trasformare barattoli di minestra in icone, Andy è stato amato ma, forse, molto di più odiato.
“Perché quando Andy ti concedeva la sua attenzione era come una droga” , queste le parole che echeggiano alla fine dell’esposizione in un video proiettato in loop.
Vi siete incuriositi? Fate presto, avete tempo fino al 28 settembre!