Chiara Meattelli: rock in parole e fotografia
Inseguire il sogno di vivere la musica da vicino, le difficoltà e i successi di una giovane fotogiornalista a Londra
Giornalista e fotografa musicale Chiara Meattelli (Twitter @londana) ha un portfolio di ritratti che ti lascia a bocca aperta: Primal Scream, Paul Weller, Flaming Lips, Eels, Tame Impala, Howe Gelb, Mumford & Sons ecc…Scrive per Rolling Stone Italia, GQ, Il Secolo XIX, ha intervistato personaggi come Nick Cave e Ringo Starr: è una giovane emigrata a Londra alla ricerca di un sogno che ha decisamente trovato.
Ecco un’intervista in cui ci racconta del suo lavoro a metà tra scrittura e fotografia e di una vita da creativa all’estero.
Ti senti più fotografa o giornalista?
Non ho mai voluto, né saputo, scegliere. Sono due professioni che vanno molto bene insieme.
I punti di riferimento a cui ti ispiri in fotografia?
La lista è molto lunga ma se parliamo di ritratti, amo molto Irving Penn, Richard Avedon e David Bailey. Oltre all’eleganza delle forme e alla composizione, il segreto di un ritratto sta nel rivelare qualcosa di inaspettato dal soggetto che si ha davanti e per quello è necessario stabilirci una connessione speciale. Una volta David Bailey mi ha detto: “Per qualche minuto mi innamoro di tutti i miei soggetti, uomini o donne che siano”. Sento che devo crescere ancora molto come fotografa anche se è difficile sperimentare quando si hanno pochi minuti per portare a casa un servizio. Ma ci sto lavorando su.
Hai intervistato e fotografato grandi personaggi della musica, c’è stato qualcuno che ti ha messo in grande soggezione e qualcuno invece particolarmente a tuo agio?
Nick Cave è stato un campione nel mettermi in soggezione: esamina ciascuna parola gli si dica e gioca a farti sentire a disagio. È uno dei migliori songwriter del nostro tempo e oltre a dire cose estremamente interessanti, ha anche un gran senso dell’umorismo. Così, una volta accettata la sfida, sono tornata a casa con una delle mie interviste migliori. Wayne Coyne (leader dei Flaming Lips) invece è alla mano: dopo un minuto di conversazione, era come un vecchio amico a cui avrei potuto chiedere qualsiasi cosa. Anche Ringo Starr, che invece rivela poco di se stesso nelle interviste, mi ha accolto con il calore di un parente che non vedevo da anni!
Quando hai capito che la tua passione per la musica e la fotografia sarebbe diventato un lavoro?
Più che averlo capito, diciamo che l’ho voluto e ci ho provato senza sapere bene cosa sarebbe successo. Il passaggio da scrivere e fotografare per hobby a farlo per mestiere, a tempo pieno, è stato lungo, complesso e costellato di tanti altri lavori part-time che mi consentissero di sopravvivere. Oggi sono felice della mia scelta, anche se ci sono mesi di magra: vivere facendo ciò che si ama è prioritario.
Grazie alla tecnologia digitale e ai social network è molto più immediato e alla portata di tutti fare e condividere foto, questo ci ha reso tutti un po’ più fotografi?
La tecnologia ha facilitato le cose a molti amatori ma non penso che basti acquistare una super reflex digitale con mega zoom da migliaia di sterline per scattare una foto epica o auto-proclamarsi “fotografi”. Nemmeno essere bravi con i programmi di foto-ritocco è sufficiente: in molte foto che si vedono oggi, se togli tutti gli effetti applicati in post produzione, non resta nulla. D’altro canto i social network – e internet più in generale – hanno legittimato l’auto-pubblicazione e con i telefonini ora è possibile realizzare foto incredibilmente buone. Un caso su tutti è il New York Times che ha utilizzato sulla prima pagina un ritratto pubblicato su Instagram, scattato con iPhone. Ma per tagliar corto, il risultato finale di tutti questi fattori è la standardizzazione, l’appiattimento e la nauseante sovrabbondanza di immagini con cui veniamo bombardati ogni giorno. La magia è inevitabilmente andata perduta. In tempi come questi la vera sfida è sapersi distinguere e a questo fine, per come la vedo io che forse sono una romantica nostalgica, un fotografo dovrebbe conoscere bene la sua macchina ed essere in grado di scattare su rullino. Ovvero, bisogna conoscere il mestiere prima di prendere le scorciatoie offerte dalla tecnologia.
Si parla spesso di come i lavori creativi (scrittura, pubblicità, fotografia ecc…) vengano sottopagati o addirittura non pagati, cosa ne pensi?
Penso che, in gran parte per le ragioni qui sopra, ora l’offerta del lavoro creativo sia arrivata al suo massimo storico. È la semplice legge di mercato: se l’offerta supera la domanda, il lavoro è pagato molto meno. Inoltre siamo in un periodo di grave recessione economica: l’editoria sta letteralmente morendo e ovunque ci sono tagli di budget con la conseguenza che sono in molti a servirsi di prodotti amatoriali piuttosto che professionali. La differenza si vede e come. Ma chi ambisce a diventare fotografo o giornalista di professione, non dovrebbe mai e poi mai lavorare gratuitamente. Va bene un periodo di stage non retribuito all’inizio, va bene collaborazioni pagate noccioline per webzine minori al fine di costruirsi un portfolio, ma se si regalano immagini e articoli a grandi testate – ed è un fenomeno tristemente diffuso – allora si sta volontariamente uccidendo la professione che si vorrebbe svolgere. È un nonsenso.
Ci parli del progetto Chi-Dom, in collaborazione con il fotografo Dominic Lee?
Ecco, Dominic (londinese, 42 anni) è un esempio di fotografo destinato a scomparire tra pochi anni, a cavallo tra analogico e digitale: sa tutto delle macchine a pellicola, della camera oscura, dell’utilizzazione delle luci da studio, delle attrezzature digitali e del foto-ritocco (che cerca di tenere al minimo essendo un tipo vecchia scuola). Dominic mi ha insegnato e continua ad insegnarmi, moltissimo. Ho iniziato ad assistere per lui sette anni fa e ora siamo in una partnership sia per progetti artistici che commerciali, come pubblicità, video e illustrazioni per libri. Lavoriamo nel suo studio di West Hampstead, abbiamo lo stesso senso dello strambo e ci compensiamo: lui è bravo con gli oggetti e io con le persone. Siamo un bel team ed è una grande cosa non dovere lavorare sempre soli.
Da 12 anni vivi e lavori a Londra, com’è la vita da expat, pensi che torneresti mai in Italia?
La cosa buona di quando si vive a lungo all’estero è che si guadagna una prospettiva sul proprio paese che rimanendo non si raggiungerebbe mai. Amo molte cose dell’Italia e molte dell’Inghilterra, anche se Londra è un universo a parte. Non sono una nazionalista, per come la vedo io è solo un caso dove si nasce, non c’è merito e non c’è orgoglio: ciascun paese ha i suoi pro e contro, dipende da cosa si cerca e in che fase della vita si è. Per il lavoro che svolgo, per il grande amore che ho per la musica e a causa delle brutali pressioni fiscali a cui il nostro paese è sottoposto, ora non ho alcun desiderio di tornare a vivere in Italia.